L’approccio alle problematiche connesse con la protezione del proprio patrimonio e con il cosiddetto “passaggio generazionale” è particolarmente delicato.
A fianco di problemi tecnici notevolmente complessi si pongono sempre aspetti che coinvolgono la sfera sentimentale, familiare ed emotiva della persona che si rivolge allo Studio.
L’approccio alle problematiche connesse con la protezione del proprio patrimonio e con il cosiddetto “passaggio generazionale” è particolarmente delicato.
A fianco di problemi tecnici notevolmente complessi, si pongono sempre aspetti che coinvolgono la sfera sentimentale, familiare ed emotiva della persona che si rivolge allo Studio.
Per questo motivo l’impostazione della consulenza deve tenere conto di tutte le sfaccettature della situazione prospettata e anche le possibili soluzioni non possono basarsi esclusivamente su valutazioni economiche.
Le operazioni da compiere sono molteplici, anche se le fasi, che di seguito rappresentiamo in successione concettuale, risultano spesso, di fatto, parzialmente sovrapposte.
In primo luogo occorre determinare con precisione chi è il reale Cliente. Non è raro, infatti, che chi si presenta in Studio non rappresenti solo o tanto se stesso, ma anche altri soggetti (ad esempio: uno dei coniugi che, tuttavia, “parla” – o ritiene di parlare – anche a nome dell’altro; uno dei titolari di un’azienda che “parla” – o ritiene di parlare – anche a nome della società; un figlio che, però, vuole indurre delle decisioni da parte di taluno dei propri genitori, ecc…).
L’aspetto fondamentale immediatamente successivo riguarda l’oggetto dell’incarico ovvero l’individuazione precisa di quale sia l’obiettivo finale (ad esempio: proteggere il patrimonio da possibili rischi di aggressioni da parte di terzi; trasferire il patrimonio ai figli minimizzando il costo fiscale e salvaguardando il proprio futuro personale; garantire la continuità e la sopravvivenza dell’azienda rispetto alla vita del (o dei) fondatori; garantire il trasferimento dell’azienda a quello dei figli che vi opera e il resto del patrimonio agli altri; o anche un mix di diversi obiettivi). Peraltro, talvolta, l’obiettivo originario deve essere modificato per tenere conto delle concrete situazioni riscontrate e dei vincoli di legge.
Lo sviluppo del punto precedente porta alla necessità di individuare tutti i portatori di interessi (per chi ama l’inglese: “stakeholders”) coinvolti, in misura più o meno rilevante, nelle ipotesi che si vanno profilando.
A questo punto diventa indispensabile l’approfondita indagine del quadro patrimoniale coinvolto: immobili, aziende, partecipazioni societarie, titoli, liquidità, ecc… Come detto questa indagine, talvolta, può portare alla modifica o alla ridefinizione degli obiettivi originari.
Sulla scorta delle indagini lo Studio potrà, anche con l’aiuto di altri professionisti individuati di concerto col Cliente (ad esempio: Notaio, Avvocato, Commercialista “storico”, ecc…) addivenire all’individuazione della soluzione migliore. In realtà, frequentemente, le soluzioni prospettate sono molteplici o, comunque, più di una, nel senso che nessuna ha solo aspetti positivi mentre tutte hanno lati positivi e lati negativi.
Per poter condurre il Cliente alla migliore tra le scelte possibili, in questa fase, lo Studio chiarirà a quest’ultimo, per ciascuna delle ipotesi formulate:
E’, questa, la fase decisionale in cui il Cliente, sulla scorta di tutte le valutazioni effettuate assieme al Professionista, è in grado di prendere le proprie decisioni, nella consapevolezza di aver agito per il meglio, vagliando ogni ipotesi e ogni possibile conseguenza.
Una volta che il Cliente ha definitivamente deciso, lo Studio continuerà nella sua opera di assistenza accompagnandolo in quella che possiamo definire la fase “esecutiva”.
Questa consiste:
In conclusione, l’intento dello Studio è mettere il Cliente in condizione di compiere le scelte migliori relativamente al proprio patrimonio per preservarlo nell’immediato e nel tempo, accompagnandolo, anche sotto il profilo psicologico ed emotivo, in ogni fase propedeutica, decisionale e, infine, esecutiva.
N.B = Lo Studio Gualerzi e Signorini offre, a chi voglia intraprendere un’attività di analisi della propria situazione patrimoniale nell’ottica di preservarne il valore dai rischi attuali o futuri, la consulenza iniziale di valutazione, che normalmente richiederà uno o due colloqui al massimo, in modo totalmente gratuito. Anche per l’ipotesi in cui il cliente, al termine delle valutazioni, decida di non proseguire oltre.
Chi fosse interessato, quindi, può chiedere, senza alcun impegno ulteriore, un appuntamento, anche in orari compatibili con l’attività nel frattempo svolta, telefonando in Studio al numero: 0376 925001 ovvero scrivendo all’indirizzo: studio@gualerziesignorini.it
Come è noto, gli Italiani (assieme ai Giapponesi) sono un popolo di risparmiatori; tra i maggiori dei paesi industrializzati. In realtà questo, oggi, è meno vero che in passato essendo diminuita la quota di reddito risparmiata dagli Italiani dal circa 20% degli anni ‘90, al 15/16% degli inizi 2000, al 8/10% degli ultimi anni di crisi.
La diminuzione è dovuta a due fattori concomitanti:
In ogni caso, anche in virtù dei grandi risparmi del passato, le famiglie italiane sono tra le prime al mondo per patrimonio posseduto; sia in valore assoluto che in rapporto ad altri indicatori, quali PIL, reddito pro-capite e debito pubblico.
E’ naturale quindi, che esse si pongano il problema di come salvaguardarlo, sia con riferimento al presente, sia guardando al futuro.
Le aree di attenzione di chi si trova a dover proteggere il proprio patrimonio familiare sono diverse.
Nelle pagine di questo sito ci limiteremo ad indagarne alcune, ovvero quelle in cui lo Studio Gualerzi e Signorini si pone come interlocutore e partner di consulenza.
Stiamo parlando di:
Non ci occuperemo quindi:
Vedremo che gli strumenti a disposizione per proteggere il patrimonio dai rischi e nei momenti esposti sopra ai numeri da 1) a 3) sono molteplici e che, spesso, lo stesso strumento giuridico si presta a risolvere problemi trasversali alle diverse aree di attenzione pur essendo, quasi sempre, più orientato in un senso anziché in un altro.
Di conseguenza, dopo un’analisi, anche storica, della situazione fiscale in Italia in ambito successorio, parleremo di:
Naturalmente lo scopo di queste pagine è risvegliare l’interesse sulle problematiche esposte e fornire una carrellata rapida e sintetica degli strumenti a disposizione, ma ogni situazione va vista a sé, perché ogni situazione è un “unicum” rispetto:
alle possibili specifiche problematicità.
Fa parte dell’istinto naturale dell’individuo cercare, in ogni momento, di porre in essere tutte le azioni possibili a garanzia del futuro proprio e dei propri cari.
Tuttavia pochi individui, specialmente se di età non molto avanzata, si spingono a valutare l’ipotesi di una propria dipartita, delle conseguenze che essa avrebbe se non opportunamente “governata” e delle conseguenti possibili azioni da porre in essere.
Entra qui in gioco l’atteggiamento individuale verso la morte che, nella maggioranza dei casi, può configurarsi in uno dei seguenti modi:
I soggetti che si pongono verso la morte come sintetizzato ai punti da 1) a 3), se non sono costretti da spinte esterne o situazioni particolari, difficilmente si pongono, con riguardo a se stessi, il problema delle conseguenze di un simile evento, specie se improvviso, sull’ambiente che li circonda. Per “ambiente”, in questa sede, ci riferiamo sicuramente ai propri familiari/eredi ma anche: ad altre persone legate affettivamente, alla propria azienda, ai propri dipendenti, ai propri amici, ecc…
Solamente i soggetti che si pongono verso la morte come sintetizzato al punto 4), pur se non costretti da spinte o eventi esterni, affrontano senza problemi l’argomento e cercano di attuare tutte le misure che ritengono opportune a salvaguardia del proprio “ambiente” come sopra definito.
Invece, prescindendo dall’atteggiamento psicologico e affrontando l’argomento con razionalità, chiunque si dovrebbe rivolgere le seguenti domande:
L’analisi della situazione personale del cliente (familiare ed economica), la scelta degli strumenti sopra accennati al punto c) a seconda delle finalità che ci si pone, anche variamente mixati tra di loro, analizzando i pro e i contro di ciascuno e svolgendo ogni altra considerazione relativa, anche di carattere umano e personale, costituisce una delle aree di specializzazione del nostro Studio di consulenza.
In questo momento storico, tra le motivazioni sopra esposte, alcune valide universalmente e in ogni tempo, assume preminente importanza l’opportunità di sfruttare una situazione fiscale particolarmente favorevole destinata a modificarsi in peggio in tempi non quantificabili ma, forse, non troppo remoti.
Sembra una frase provocatoria e invece, quando parliamo di successione, è proprio così.
Se nella fiscalità generale l’Italia si colloca ai primi posti europei e mondiali per carico fiscale imposto ai contribuenti, quando si parla di donazioni o di successioni (le regole generali e le aliquote sono analoghe) invece, il nostro Paese può considerarsi a pieno titolo un paradiso fiscale.
Fino a quando? Già nel 2015, il gruppo parlamentare di “SEL”, aveva presentato una proposta di legge volta a un pesante inasprimento dell’imposta e lo stesso Governo, nella primavera del 2016, aveva annunciato di voler mettere mano alla normativa, ovviamente, con l’ottica di incrementare le entrate fiscali dello Stato.
Successivamente, qualche esponente dei “5 Stelle” si è spinto ad auspicare un’acquisizione da parte dello Stato, a titolo di imposta, del 50% (!!!) del patrimonio caduto in successione.
Adesso il tema è un po’ sopito, ma può sempre tornare d’attualità anche per le spinte della UE, nei cui paesi l’analoga normativa è assi più pesante, che mal tollera questa situazione e la contemporanea eccessiva entità del debito pubblico italiano.
Ma quali sono le aliquote attuali dell’imposta di successione (valide anche per l’ipotesi della donazione)? Di seguito una tabella riassuntiva (ricordando che gli “affini” sono i parenti del coniuge e che, ai sensi della Legge 76/2016, il partner all’interno dell’unione civile ha gli stessi diritti del coniuge):
Eredi (o beneficiari nella donazione) | Aliquota | Franchigia |
Coniuge Parenti in linea retta (figli, nipoti, pronipoti) | 4% | Euro 1.000.000 cadauno |
Fratelli e sorelle | 6% | Euro 100.000 cadauno |
Parenti fino al 4° grado (figli del fratello o sorella, cugini) Affini in linea retta (genero, nuora, suoceri, ecc…) Affini in linea collaterale | 6% | Nessuna |
Altri | 8% | Nessuna |
Rileviamo in primo luogo che si tratta di un’imposta dall’applicazione molto semplice in quanto:
Facciamo qualche esempio (valido anche, a parità di valori e di gradi di parentela, in ipotesi di donazione).
Per capire la portata delle affermazioni precedenti, senza entrare nel dettaglio delle legislazioni degli altri Stati europei, vediamo cosa succederebbe se gli stessi casi accadessero nei principali di essi.
Riepilogando, in ipotesi di successione e con le approssimazioni sopra indicate, il carico fiscale totale dovuto dagli eredi, nei tre casi ipotizzati, sarebbe di euro:
Italia | Gran Bretagna | Germania | Francia | |
Caso 1 | Zero | 600.000 | 300.000 | 500.000 |
Caso 2 | 60.000 | 1.600.000 | 780.000 | 1.600.000 |
Caso 3 | 64.000 | 200.000 | 240.000 | 520.000 |
Agli importi sopra indicati, per quanto riguarda l’Italia, occorre aggiungere un 3% di imposte ipotecarie e catastali sul valore di eventuali immobili che costituiscano parte dell’eredità. Quindi nessuna aggiunta se l’eredità è costituita da partecipazioni societarie, beni mobili o altro; un’aggiunta del 3% sul valore degli immobili se ve ne sono.
Il quadro tuttavia non cambia. Riprendiamo, ad esempio, il caso 2. Se l’intero valore di euro 4.500.000 fosse costituito da patrimonio immobiliare le imposte appena citate comporterebbero un esborso complessivo di euro 135.000, da sommare agli euro 60.000 di imposta di successione con un totale di euro 195.000. Cifra non trascurabile ma ancora estremamente inferiore a quella dovuta negli altri Paesi per la sola imposta di successione.
Inoltre, anche negli altri paesi, pur con diversificazioni notevoli, vi possono essere ulteriori imposte (oltre a quella di successione) sui trasferimenti.
La riforma del catasto.
Ma vi è un altro motivo per il quale l’Italia è un paradiso fiscale.
In sede di successione (o donazione) i valori di terreni e immobili assunti ai fini del calcolo sono i valori catastali ovvero: la rendita catastale per i fabbricati o il reddito dominicale per i terreni, moltiplicati per determinati coefficienti stabiliti dalla Legge.
Ora, è notorio che queste rendite (e di conseguenza questi valori) risultano normalmente ampiamente sottostimati rispetto ai valori reali di mercato e questo è vero persino in questo momento storico che vede i prezzi dei terreni e, soprattutto, dei fabbricati, particolarmente depressi.
In particolare, a subire i maggiori aumenti dei valori catastali, dovrebbero essere gli immobili nelle grandi città, nei centri storici, nelle aree che più godono di pubblici servizi, ecc…
Come per l’imposta di successione, anche la riforma del catasto non è ferma per motivi tecnici, bensì per motivi politici. Infatti, pur accettando il principio stabilito dall’ultimo Disegno di Legge di invarianza di gettito per lo Stato, questa riforma, comunque, creerebbe una grossa redistribuzione di reddito tra categorie sociali agendo a livello di imposte locali, di ISEE, ecc…
E inoltre, chi è disposto a scommettere sull’invarianza di gettito e non pensa, invece, che l’occasione sarà ghiotta per il Fisco per aumentare le entrate?
Tuttavia la riforma è ritenuta da tutti universalmente necessaria essendo la situazione attuale basata sulla riforma del Catasto operata nel 1939 e quindi, ormai, completamente avulsa dalla realtà.
Conclusioni
Da questa breve rappresentazione ed esemplificazione dovrebbe risultare assolutamente evidente l’attuale situazione di vero e proprio “paradiso fiscale” dell’Italia in campo successorio.
La conseguenza è che chiunque, anche non in età avanzata, disponga di un patrimonio non trascurabile dovrebbe porsi SUBITO il problema della propria successione. Esistono infatti strumenti per sfruttare l’attuale situazione estremamente favorevole pur contemperando le opportunità fiscali con le esigenze di tutela personale attuale e futura.
Con le normative di oggi, quando parliamo di successione, l’Italia è un paradiso fiscale. Ma è sempre stato così?
NO! L’attuale impianto normativo è frutto di due interventi successivi che hanno modificato una situazione che, in precedenza, era sostanzialmente stabile da decenni (in sostanza dal 1972). Questi due interventi, non casualmente, sono avvenuti in concomitanza con le elezioni politiche nazionali del 2001 e del 2006.
Ma facciamo un rapido excursus storico.
L’imposizione di tributi sull’eredità, in Italia, risale ai tempi dell’antica Roma. Ad esempio, già sotto Augusto, nel 7 d.C., esisteva la vicesima ereditatum. La legge, nello stabilire che il testamento doveva essere aperto davanti all’ufficio che si occupava della riscossione dell’imposta, stabiliva anche che allo Stato fosse devoluto il 5% (ventesima – vicesima – parte) del patrimonio ereditario.
L’imposta, nelle forme più diverse, attraversò l’epoca dell’impero romano e del medio evo, interessando tutti gli stati europei fino al ‘700, quando in Francia le fu data un’impostazione più razionale, che può essere considerata l’antesignana delle legislazioni dell’epoca moderna.
Anche l’Italia unita ebbe una sua legge sin dal 1862, ricalcata su quella piemontese che era la più esosa di tutte (tanto che fu corretta per renderla meno onerosa nel 1866).
Tra ‘800 e ‘900, sull’onda delle idee liberali e socialiste del tempo, che ritenevano che l’imposta potesse <<provvedere a regolare in modo più equo la ricchezza privata>> (così Giulio Alessio, Accademico dei Lincei, professore di scienza delle finanze, più volte ministro tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900) si giunse a ipotizzare che, in caso di mero godimento dei beni ereditati, col susseguirsi di 3 successioni (e quindi di 3 generazioni) l’intero patrimonio dovesse essere acquisito dallo Stato (così Eugenio Rignano, noto filosofo del tempo).
Un cambio deciso di rotta, in Italia, avvenne nel 1923 quando il governo fascista ritenne che l’imposta, se troppo onerosa, fosse un ostacolo alla creazione di ricchezza (anziché un correttivo in senso equitativo) e, inoltre che andasse contro <<all’istituto famigliare, anche nel suo elemento patrimoniale>>.
Dal punto di vista macroeconomico, l’imposta, che rappresentava lo 0,2/0,3% del PIL agli inizi del ‘900, passò dopo i correttivi dell’epoca fascista, a meno dello 0,1% mentre sul totale delle entrate dello Stato passò dal 2,0/2,5% a meno dell’1,0%.
Dopo la seconda guerra mondiale l’impianto normativo di fondo rimase quello fascista, benché un incremento delle aliquote, frutto delle necessità della ricostruzione e del quadro politico dell’epoca, abbia portato a un discreto aumento del gettito
Veniamo all’epoca moderna.
Nell’ambito della generale riforma dell’intero sistema tributario impostata alla fine degli anni ’60 del ‘900 e realizzata nei primi anni ’70 con i contributi fondamentali di Luigi Preti e Bruno Visentini, in parte anche per allineare l’Italia col resto d’Europa (vedi sostituzione dell’IGE con l’IVA), anche l’imposta sulle successioni e donazioni venne profondamente riformata nel 1972.
L’impianto del 1972, che è quello di cui trattiamo in questa pagina del sito, rimase stabile per circa 30 anni (sino al 2001). Alla fine degli anni ’90, tuttavia, a causa della modestia del gettito (inferiore allo 0,1% del PIL e all’1% delle entrate), specialmente se raffrontato agli elevati costi di gestione del tributo, si sviluppò nuovamente un intenso dibattito che trovò molti fautori di una sua abrogazione totale come, peraltro, fautori di un pesante inasprimento.
Per cercare di mediare tra le opposte visioni, agli inizi di questo secolo, il Governo di centro-sinistra di allora, con la Legge 342/2000 rimodulò gli scaglioni così da attenuare il carico impositivo, in particolare nel caso di patrimoni non particolarmente elevati.
Delle istanze più radicali, invece, si fece interprete il Governo Berlusconi (che nel frattempo aveva vinto le elezioni), il quale, anche per adempiere a un preciso impegno elettorale, con la Legge 383/2001, ha totalmente abrogato le imposte di successione e donazione, a decorrere dallo stesso 2001.
Infine, in parziale (ma molto morbida) correzione di tale scelta, il Governo Prodi, anche in questo caso per adempiere ad analogo impegno elettorale, con la Legge 286/2006, in vigore dal 2007, le ha reintrodotte benché nell’attuale, eccezionalmente moderata, configurazione.
Poiché un ritorno a una situazione, per così dire “più normale”, è scontato, resta solo da vedere quando avverrà, è sicuramente interessante vedere quale fosse l’impianto normativo previsto per il 2001 ovvero dopo la revisione moderativa dovuta alla L. 342/2000, fino alla (temporanea) abrogazione dell’istituto avvenuta nel 2001.
Inutile andare a indagare sull’evoluzione nei decenni immediatamente precedenti. Sarà sufficiente evidenziare che le modifiche erano quasi esclusivamente incentrate sull’adeguamento dei valori previsti (franchigie, scaglioni, ecc…) alla perdita di valore nel tempo della moneta, che allora era la Lira.
Ricordiamo infatti, soprattutto a beneficio dei più giovani lettori, che, sino alla metà degli anni novanta del ventesimo secolo, l’Italia era caratterizzata da una forte spinta inflazionistica, iniziata nei primi anni settanta col cosiddetto shock petrolifero e durata più di vent’anni.
In quei due decenni circa, l’inflazione annua fu praticamente sempre a due cifre, per molti anni attorno al 20%, con una punta massima nel 1980 quando raggiunse il 21,2%.
La previsione normativa con le modifiche di cui alla L.342/2000.
Al di là delle cifre estremamente più elevate, la normativa di allora aveva due sostanziali differenze rispetto all’impianto normativo attuale.
In primo luogo, per tutte le categorie di possibili eredi (da coniuge e figli, agli estranei) erano previste aliquote crescenti a scaglioni. Un meccanismo simile a quello da sempre in essere per l’IRPEF (e peraltro in vigore negli altri Paesi europei; v. pagina: “L’Italia è un paradiso fiscale?) per cui, per ogni scaglione di base imponibile è prevista una aliquota, mentre sulla parte eccedente si applica un’aliquota maggiore, sino alla saturazione dello scaglione e così via sull’ulteriore eccedenza.
L’altra grande differenza consisteva nella separazione dell’imposta in due parti:
Nella Tabella seguente sono riepilogati: scaglioni e aliquote di tassazione sia per la parte A che per la parte B.
(N.B. = gli scaglioni, allora erano ovviamente espressi in Lire ma, nella Tabella, per velocità di comprensione, vengono espressi anche in euro).
Riprendiamo gli esempi della pagina del sito intitolata “L’Italia è un paradiso fiscale”, sia per capire il meccanismo allora vigente, sia per rilevare quanto fosse estremamente più oneroso.
E’ appena il caso di rilevare che, la stessa situazione, oggi, avrebbe un carico fiscale complessivo di euro 64.000. 64.000 contro 262.146.
A questo punto, riprendiamo la tabella che abbiamo presentato nella pagina del sito denominata “L’Italia è un paradiso fiscale” aggiungendo la colonna “Italia ante 2001”.
Italia (oggi) | Italia (ante 2001) | Gran Bretagna | Germania | Francia | |
Caso 1 | Zero | 361.822 | 600.000 | 300.000 | 500.000 |
Caso 2 | 60.000 | 1.036.822 | 1.600.000 | 780.000 | 1.600.000 |
Caso 3 | 64.000 | 262.146 | 200.000 | 240.000 | 520.000 |
Conclusioni
Pure da questa breve esemplificazione “storica” dovrebbe risultare assolutamente evidente l’attuale situazione di vero e proprio “paradiso fiscale” dell’Italia in campo successorio, a differenza anche, semplicemente, di un recente passato.
La conseguenza è che chiunque, anche non in età avanzata, disponga di un patrimonio non trascurabile dovrebbe porsi ora il problema della propria successione. Esistono infatti strumenti per sfruttare l’attuale situazione estremamente favorevole pur contemperando le opportunità fiscali con le esigenze di tutela personale attuale e futura.
Il tema del destino del proprio patrimonio in relazione all’inevitabile fine della vita è talmente importante e storicamente sentito dalle persone che, oltre a un accenno anche a livello costituzionale (l’ultimo comma dell’art.42 della Costituzione recita: <<La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità>>) occupa un intero libro, il secondo, dei sei di cui è composto il Codice Civile.
Gli articoli vanno dal 456 all’809, ma in realtà in molte altre norme codicistiche vi sono richiami alla materia, e disciplinano una casistica estremamente articolata e complessa, suggerita dall’esperienza di secoli se non di millenni.
In questa sede, pertanto, dovremo limitarci a una rapidissima sintesi, con qualche approfondimento esclusivamente sui punti che ci interessano per altre pagine di questo sito.
La successione legittima.
Viene definita successione legittima quella in cui il defunto non ha lasciato un testamento, oppure questo è dichiarato invalido o, infine, dispone solo per una parte dei beni.
In questo caso, a seconda di quali siano i “successibili” effettivamente presenti, la legge si premura di stabilire a chi e in che percentuale debba essere devoluta l’eredità.
I “successibili”, cioè coloro che possono concorrere nella successione, sono (art.565 c.c.):
Gli articoli da 566 a 586 stabiliscono la percentuale che spetta a ciascuno nelle varie situazioni con alcune regole generali:
Successione testamentaria.
Chiunque sia “capace” (ovvero maggiorenne, non interdetto per infermità mentale e in possesso delle proprie capacità di intendere e volere) può disporre dei propri beni, in tutto o in parte, per quando avrà cessato di vivere, per mezzo di un atto denominato “testamento”. Il soggetto che dà disposizioni sui propri beni a mezzo di “testamento” è detto “testatore”.
Il testamento è un atto sempre revocabile dal testatore che può, in ogni momento, apportarvi modifiche, annullarlo o sostituirlo.
Riguardo alla forma il testamento può essere:
Con il testamento, il testatore, può:
Tuttavia, il potere di disporre del testatore NON è illimitato in quanto vi sono dei soggetti, definiti “legittimari” (art.536 c.c.) ai quali, comunque, è riservata una quota dell’eredità.
Sono legittimari:
Rispetto alla più ampia categoria dei “successibili”, non sono quindi legittimari e, di conseguenza, non vi è alcuna riserva a loro favore: i collaterali, gli altri parenti di qualunque grado e lo Stato.
In sostanza, a parte i casi di indegnità previsti dall’art.463 c.c. (che esclude dall’eredità coloro che si siano macchiati di crimini particolarmente gravi nei confronti del testatore o del suo coniuge o dei suoi discendenti o ascendenti), nessuno può “diseredare” i legittimari (le affermazioni in senso opposto da parte di qualche protagonista di film o serie televisive, normalmente dipendono dal fatto che questi sono di produzione e ambientazione estera).
Ovvero, a seconda della “qualità” e della “quantità” dei legittimari, il testatore deve riservare ad essi una quota variabile del proprio patrimonio; la quota residua, di cui il testatore può disporre a piacimento, si chiama “quota disponibile”.
Così, ad esempio:
Ovviamente la quota disponibile può essere devoluta dal testatore anche a favore di uno o più dei legittimari (ad esempio, se i legittimari sono due figli, il testatore può lasciare il terzo disponibile a uno dei due che, così, avrà in totale due terzi mentre l’altro solo il terzo di legittima)
Donazioni
Ogni persona, oltre a disporre dei propri beni per il momento in cui avrà cessato di vivere, può, analogamente, disporne mentre è ancora in vita. L’atto con cui può essere esercitato tale diritto è l’atto di donazione e le parti sono: colui che dona detto “donante” e colui che riceve detto “donatario”.
Ai sensi dell’art.769 c.c., la donazione è il contratto col quale una parte ne arricchisce un’altra (con ciò distinguendolo da altri contratti, come la compravendita, in quanto, in linea di principio non vi è uno scambio, un corrispettivo, ma, a seguito della donazione, il donante si troverà “più povero” e il donatario “più ricco”).
Si noti che è un contratto, non un atto unilaterale e quindi, si perfeziona solamente con l’accettazione, contemporanea o successiva, del donatario.
Non cambia la natura dell’atto il fatto che esso venga effettuato per riconoscenza del donante nei confronti del donatario (ad esempio: la donazione di un immobile a favore della governante che va in pensione per gratitudine per i servizi resi alla famiglia) ovvero che, assieme alla donazione, venga stabilito un onere a carico del donatario, con la cosiddetta “donazione modale” (ad esempio: la donazione di un immobile alla Parrocchia a fronte dell’onere perpetuo a che venga celebrata annualmente una messa di suffragio per un congiunto defunto; ovviamente l’onere non può avere valore analogo alla donazione, altrimenti, al di là del “nomen iuris” si è di fronte a qualcosa di diverso).
Sotto il profilo della forma, fatte salve le donazioni di modico valore, esse devono essere fatte per atto pubblico notarile (N.B. = il modico valore, per giurisprudenza consolidata, va visto non in assoluto ma con riferimento alla situazione economico patrimoniale del donante).
Successioni e donazioni: cosa le unisce?
Abbiamo parlato di successioni e di donazioni assieme, non solo perché entrambe le fattispecie riguardano momenti devolutivi o dispositivi del patrimonio, ma anche perché sono strettamente correlate come segue:
In sostanza, per certi aspetti, la donazione è una sorta di “acconto” sulla successione.
Al fine di quanto sopra la Legge prevede due, fondamentali, fattispecie: l’istituto della “collazione” e “l’azione di riduzione”.
Esempio: Tizio muore, senza alcun testamento, lasciando come eredi esclusivamente i 2 figli Caio e Sempronio. Il patrimonio di Tizio, al momento della morte, è di 1.000 (supponiamo tutta liquidità). Caio, tuttavia, ha avuto dal padre mentre era in vita, la donazione di un immobile che, al momento della donazione stessa, valeva 200 mentre al momento della morte di Tizio vale 400. L’asse ereditario è dato dal cumulo tra la liquidità giacente e l’immobile donato illo tempore (supponiamo che non vi siano passività) e, vista l’assenza di testamento, si divide per due. Non solo: il valore su cui fare il calcolo è 1.400 – e non 1.200 – poiché il valore della donazione si valuta al momento della morte del donante. Quindi, in sede successoria, Sempronio avrà liquidità pari a 700 mentre a Caio toccherà 300, che cumulata ai 400 del valore della donazione lo porta a pareggiare il fratello. Naturalmente Tizio potrebbe non accettare l’eredità, nel qual caso egli si terrebbe l’appartamento ma la liquidità di 1.000 andrebbe interamente a Sempronio).
Il donante, tuttavia, in sede di donazione, può dispensare il donatario dalla collazione ma la disposizione è valida solo nei limiti della quota disponibile.
Nell’esempio precedente, se Tizio, in sede di donazione, avesse dispensato Caio dalla collazione, poiché la quota disponibile è 1/3 e 1/3 di 1.400 è 466,66, cioè più di 400, la divisione tra gli eredi avrebbe riguardato i soli 1.000 di patrimonio di Tizio al momento della morte, da dividersi in parti uguali di 500 cadauno tra i 2 fratelli. Così, infine, Caio avrà avuto 400 + 500 = 900 e Sempronio solo 500.
Se però il patrimonio di Tizio al momento della morte, anziché di 1.000 fosse di 500, avremmo che il valore dell’asse ereditario sarebbe di 900 e la quota disponibile di 300. Quindi la liquidità sarebbe divisa, quanto a 300 a Sempronio come sua quota di legittima, quanto a 200 a Caio che, sommato ai 400 della donazione avrebbe in totale 600 ovvero: 300, come sua quota di legittima e 300, come disponibile che il de cuius gli ha attribuito).
In sostanza, ripetiamo, per coniuge e discendenti, la donazione è una sorta di “acconto” sulla futura successione, salvo che il donante disponga diversamente ma, in questo caso, nel limite della quota disponibile.
Esempio: Tizio muore lasciando un patrimonio di 1.000 e debiti per 300 dopo che, in vita aveva effettuato donazioni per 500 (da intendersi come valore alla data della morte dei beni donati “illo tempore”) a favore di un ente benefico. Con la riunione fittizia si determina che l’asse ereditario è di (1.000 – 300 + 500 =) 1.200. Se gli eredi sono la moglie e due figli, per ciascuno di essi la quota di legittima è di 300. Di conseguenza la quota disponibile è di 300. Poiché l’ente benefico ha avuto 500, gli eredi legittimari potranno esperire giudizialmente l’azione di riduzione per ottenere dall’ente benefico la restituzione di 200 avuti in eccedenza rispetto alla quota disponibile.
Esempio ulteriore: Tizio muore lasciando un patrimonio netto di 600 costituito da beni per 1.000 e debiti per 400, nonché i due figli Caio e Sempronio come eredi legittimari. Tizio lascia anche un testamento con cui destina a Caio un valore di 500 e a Sempronio un valore di 100. L’asse ereditario è, evidentemente di 600 e la quota di legittima di ciascun figlio 200, così come 200 è la disponibile. Di conseguenza Sempronio potrà agire in riduzione della disposizione testamentaria a favore di Caio da 500 a soli 400 (200 di legittima e 200 di disponibile) salvaguardando così la propria legittima.
La proprietà è un diritto costituzionalmente garantito poiché la Costituzione della Repubblica, all’art.42 recita: <<La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.>>
E’, questo, uno degli articoli che più fa emergere in tutta la loro evidenza le tre anime che si confrontarono nella Costituente per la stesura della Suprema Carta: cattolica, marxista e liberale.
Nel rispetto dei principi fondamentali a tutela della proprietà (privata) trasfusi nella Costituzione, la disciplina della materia occupa l’intero terzo libro del Codice Civile (che, ricordiamo, ne è precedente).
Gli articoli che disciplinano la proprietà, vanno dal 810 al 1172 e si occupano degli aspetti più disparati (in discreta parte rilevanti nel periodo storico in cui il Codice Civile fu redatto e approvato – primi anni ’40 – molto meno oggi) ma noi accenneremo solamente a qualche aspetto e, in particolare, alle fattispecie dell’usufrutto e della nuda proprietà perché di particolare rilievo al fine che ci interessa, ovvero al fine di gestire e agevolare il passaggio del patrimonio, anche aziendale, da una generazione all’altra.
La proprietà, art.832 c.c., viene definita come un diritto costituito dalla facoltà di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo entro i limiti e con gli obblighi previsti dall’ordinamento giuridico.
Possiamo quindi dire che la proprietà:
E’ quest’ultimo aspetto quello che ci interessa di più: l’aspetto della “pienezza” del diritto di proprietà.
Infatti, tra le facoltà concesse al proprietario, vi è anche la facoltà di limitare tale pienezza attribuendo a taluno parte dei diritti connessi alla proprietà, istituendo cioè sulla cosa dei cosiddetti “diritti reali di godimento”. La proprietà, in questo modo, risulta limitata, in quanto ad essa viene sottratto il diritto che viene istituito e, così limitata, viene definita “nuda proprietà”.
I diritti reali di godimento sono: il diritto di superficie, l’enfiteusi, l’usufrutto, l’uso, l’abitazione e le servitù prediali.
Con l’istituzione di uno di questi diritti la piena proprietà viene scissa e divisa tra due soggetti: al primo, cui spetta taluno di questi diritti e al secondo, detto “nudo proprietario”, che resta, per l’appunto, “proprietario” ma non può esercitare i diritti che sono stati trasferiti al primo (“nudo proprietario” proprio perché spogliato dei diritti trasferiti all’altro soggetto).
Dei vari diritti reali di godimento a cui abbiamo accennato sopra, quello che interessa a noi è “l’usufrutto”.
Con il diritto di usufrutto, l’usufruttuario, ha il diritto di:
In sostanza si tratta di un diritto molto vasto i cui limiti sono solamente:
Infatti l’usufrutto può durare al massimo:
L’usufrutto può nascere per disposizione di legge o per volontà dell’uomo. In questo secondo caso le motivazioni per l’istituzione di un diritto di usufrutto sono molteplici ma, quella che interessa a noi, è una sola: lo strumento si presta benissimo ed è molto utilizzato, per gestire il passaggio del patrimonio da una generazione all’altra.
Prima di fare qualche esempio, due ultime informazioni, di carattere fiscale, estremamente importanti:
Esempi:
Terzilla accetta e si stipula davanti al Notaio l’atto di cessione della nuda proprietà a Terzilla medesima che, in contropartita, paga ai genitori euro 120.000,00.
Effetti per Tizio e Mevia: con euro 100.000,00 effettuano tutti gli interventi necessari sulla casa, residuando loro euro 20.000,00 per ogni futura necessità personale; ognuno dei due potrà godere per tutta la vita della casa (ivi compreso il diritto di affittarla percependone i canoni laddove le condizioni di salute non consentano più loro di continuare a risiedervi); la “perdita” della (nuda) proprietà avrà come unico effetto quello di non poterla lasciare in successione a “tutti” i figli.
Effetti per Terzilla: perde da subito la disponibilità della somma di euro 120.000,00 e paga le imposte indirette sull’acquisto, ma, al decesso dell’ultimo dei genitori, consoliderà (senza alcun onere fiscale!!!) in sé la piena proprietà della casa (il cui valore, oltretutto, risulta accresciuto dai lavori effettuati) e potrà goderne e disporne, per l’appunto, come “pieno proprietario”.
I 2 figli prendono atto della volontà paterna e del suo desiderio di trattamento paritetico ma, successivamente, parlando tra di loro, condividono delle perplessità. In sostanza, vista anche la relativamente giovane età del padre, temono che tale volontà venga nel tempo mutata (il testamento, quale atto unilaterale, è sempre modificabile, anche infinite volte, dal testatore) a causa dei motivi più vari: insorgere di contrasti tra il padre e taluno dei figli, senilità sopravveniente, un secondo matrimonio del padre, possibilmente anche con prole…
Di conseguenza propongono a Tizio, che accetta, che egli:
In questo modo, pur mantenendo Tizio la disponibilità e la quasi totalità di diritti sull’intero proprio patrimonio (tra cui il diritto di goderne dei frutti: canoni di locazione e dividendi), i figli si sentono più protetti rispetto ai possibili cambiamenti di volontà e/o condizioni da parte del padre. Inoltre, qualunque modifica ci sia nell’ambito delle imposte dirette, essi saranno al riparo, relativamente ai beni ricevuti in donazione da successive richieste impositive (gratuità fiscale della consolidazione della piena proprietà).
N.B. = relativamente alla partecipazione societaria, in realtà, meglio ancora sarebbe stato il suo trasferimento (sempre della nuda proprietà) mediante il cosiddetto patto di famiglia. Vedi pagina specifica in questo sito.
Il patto di famiglia, per l’ordinamento giuridico italiano, costituisce una novità portata dalla Legge 14.02.2006, n°55, che ha introdotto nel codice civile gli articoli da 768-bis a 768-octies.
In particolare l’art.768-bis c.c. definisce: <<E’ patto di famiglia il contratto con cui, …, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti>>
Questo istituto, infatti, costituisce una deroga alla regola generale stabilita dall’art.458 c.c. che vieta i cosiddetti patti successori e che recita: <<Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti, è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. E’ del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi>>.
La parte iniziale dell’articolo (quella scritta in corsivo), peraltro, è stata introdotta proprio dalla L.55/2006 perché in precedenza il divieto era totale e assoluto.
Nel corso degli anni e in particolare verso la fine del secolo scorso, gli operatori hanno osservato come il divieto di patti successori fosse penalizzante rispetto a un interesse socio-economico generale, oltreché del singolo, a favorire il cosiddetto passaggio generazionale.
In un tessuto sociale caratterizzato da micro e mini imprese a base familiare, ogni impedimento alla successione dei discendenti nell’azienda di famiglia, al di là degli interessi individuali, appariva negativo per l’economia nazionale.
Il patto di famiglia, quindi, nasce come deroga al principio generale per rispondere a queste istanze e consente all’imprenditore di trasferire la propria azienda pur salvaguardando l’unità familiare.
Il caso tipico è quello dell’imprenditore che ha più figli di cui taluno opera nell’impresa di famiglia, è destinato a portarla avanti e magari già vi opera con notevole impegno e successo, mentre altri hanno fatto scelte di vita diverse.
Dopo aver fornito le definizioni dei termini che ricorrono e averne visto le caratteristiche, spiegheremo perché lo strumento assolva, pur con qualche lacuna, alle finalità di cui sopra.
Definizioni:
Legittimari: gli eredi a cui, per legge, è riservata una quota (legittima) dell’eredità.
Apparentemente simile alla donazione (vedremo le differenze), il patto di famiglia è il contratto con cui un imprenditore trasferisce la propria azienda (ovvero, in tutto o in parte, le proprie partecipazioni in società) a uno o più tra i propri discendenti. E’ un contratto tipico (ovvero con contenuto disciplinato dalla legge), che, a pena di nullità, deve essere stipulato nella forma dell’atto pubblico. E’, evidentemente, un atto inter vivos a cui, secondo la dottrina prevalente, devono partecipare necessariamente tutti gli eredi legittimi del disponente (secondo altra parte della dottrina la mancata partecipazione all’atto di taluno tra gli eredi non darebbe luogo alla nullità dell’atto ma comporterebbe esclusivamente la facoltà di costui di chiedere agli assegnatari il pagamento del valore della propria quota di legittima maggiorata degli interessi legali).
Gli eredi non destinatari del patto devono essere liquidati dagli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali, con il pagamento di una somma (ovvero in natura, con beni di valore…) corrispondente al valore delle loro quote di legittima. Secondo la maggioranza della dottrina, che muove dall’analisi del comma 3, dell’art.768-ter c.c., la compensazione di questi soggetti, oltreché dagli assegnatari, può essere effettuata direttamente dal disponente. Inoltre, i legittimari non assegnatari, possono rinunciare alle somme (o ai beni) loro spettanti.
Nel contratto il disponente può riservarsi il diritto di recesso, cioè di annullare l’assegnazione fatta, (peraltro, pattuendo in tal modo, risultano vanificati buona parte degli obiettivi dell’istituto perché, obiettivamente, gli assegnatari non acquisiscono alcuna garanzia sulla definitività dell’assegnazione), diversamente l’assegnazione è definitiva e il patto può essere sciolto solo per mutuo consenso (cioè con l’accordo del disponente ma anche degli assegnatari).
N.B. = Le assegnazioni effettuate nell’ambito di un patto di famiglia non sono soggette a collazione o all’azione di riduzione (vedi pagina su “Successione legittima, testamento e donazione”); resta sempre l’obbligo di rispettare i diritti dei legittimari ma questo, si tradurrà, al momento dell’apertura della successione, in un diritto di credito dei legittimari eventualmente danneggiati nei confronti degli assegnatari a vedersi rimborsati per la somma necessaria a raggiungere il valore della loro quota legittima.
A questo punto possiamo capire perché il patto di famiglia (molto meglio se stipulato senza diritto di recesso da parte del disponente) è un importante strumento per agevolare il passaggio generazionale. Per capirlo con un esempio riprendiamo, semplificandolo, il caso numero 2) della pagina intitolata “Usufrutto e nuda proprietà”.
Dapprima ipotizziamo l’uso dello strumento “donazione” e non del “patto di famiglia”.
Tizio, 60 anni, vedovo e con due soli figli: Caio e Sempronio, è un piccolo imprenditore socio unico di una spa manifatturiera. La società, tenendo conto di patrimonio e avviamento, può essere valutata euro 1.000.000. Grazie ai risparmi della sua attività imprenditoriale, inoltre, Tizio possiede immobili valutabili, nel complesso, euro 1.200.000, di cui 600.000 è il valore di un immobile adibito a studio medico in centro e 200.000 è il valore della casa di famiglia ove egli vive. Dei 2 figli: Caio, ingegnere, 35 anni, opera da 10 anni (appena conseguita la laurea) in azienda in qualità di dipendente, avviato a ruoli da dirigente; Sempronio, 38 anni, medico, svolge l’attività di dentista nello studio medico suddetto pagando un canone di locazione al padre. I rapporti tra tutti sono buoni e hanno concordemente stabilito che Tizio:
In questo modo, pur mantenendo Tizio la disponibilità e la quasi totalità di diritti sull’intero proprio patrimonio (tra cui il diritto di goderne dei frutti: canoni di locazione e dividendi), i figli si sentono più protetti rispetto ai possibili cambiamenti di volontà e/o condizioni da parte del padre. Inoltre, qualunque modifica ci sia nell’ambito delle imposte indirette, essi saranno al riparo, relativamente ai beni ricevuti in donazione da successive richieste impositive (gratuità fiscale della consolidazione della piena proprietà).
In realtà, se vista dall’angolatura dell’interesse della società (e, indirettamente, della collettività) a garantirsi una continuità nella gestione nonché se vista dall’angolatura di Caio, l’operazione avrebbe potuto essere meglio gestita con un patto di famiglia.
Ovvero, l’ipotesi sarebbe:
Apparentemente il risultato è uguale, ma in realtà, Caio avrebbe avuto i seguenti, ulteriori, vantaggi:
Con un esempio numerico, ci spieghiamo meglio.
Immaginiamo che, dopo una decina d’anni, Tizio venga a mancare e che, prima di morire, abbia dissipato tutto il patrimonio che gli era rimasto (compreso il residuo 40% di partecipazione), sicché l’asse ereditario è composto esclusivamente dal 60% oggetto del patto di famiglia e dall’immobile adibito a studio professionale.
La Spa nel frattempo è molto cresciuta e il suo capitale è valutabile in euro 3.000.000 (per cui la quota attribuibile a Caio, 60% a questo punto in piena proprietàvisto il decesso di TIzio, vale euro 1.800.000) mentre, relativamente al valore dell’immobile, anch’esso, a questo punto, in piena proprietà, supponiamo che sia crollato e l’immobile valga solamente 300.000 euro. Ebbene:
Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, la potenza dello strumento “patto di famiglia” in sede di passaggio generazionale in azienda.
Nel nostro esempio, Caio, dal momento dell’assegnazione della nuda proprietà del 60% del capitale sociale della Spa, sarà estremamente motivato a operare per la Spa stessa al massimo delle proprie energie e capacità, nella consapevolezza di operare in buona misura nel proprio interesse.
Non così in caso di donazione dove la “non definitività” della stessa sarebbe un freno al proprio impegno (peggio ancora, ovviamente, se fosse chiamato a impegnarsi solo in virtù di una promessa di lascito testamentario).
Quindi, in generale, l’interesse del Caio del nostro esempio, collima perfettamente con l’interesse della Società che trae tutti i benefici da un assetto societario stabile e da univocità di indirizzo gestionale.
E’ notorio che il tessuto economico nazionale è costituito da Piccole e Medie Imprese (PMI), se non addirittura da micro-imprese, a base familiare e in cui l’imprenditore, spesso, è un cosiddetto “self made man”.
Questa caratteristica della nostra economia:
Qualche numero:
Ovviamente, in questi ultimi casi, oltre che sugli eredi/proprietari, le conseguenze si ripercuotono sui dipendenti, sui fornitori e, in generale, su quelli che vengono definiti gli stakeholders dell’azienda.
Senza considerare poi, la distruzione di ricchezza derivante dalla perdita del know-how aziendale, del bagaglio di esperienze e, specialmente negli ultimi decenni, dall’abbandono di immobili, impianti e macchinari che cessano di essere produttivi e non vengono più utilmente ricollocati.
E’ quindi interesse di tutti i soggetti cercare di evitare queste negative evoluzioni e, al contrario, porre le condizioni perché dal passaggio generazionale l’azienda tragga maggior slancio.
E il più interessato di tutti è sicuramente proprio l’imprenditore/fondatore che, certamente, desidera che quanto costruito in una vita di sacrifici possa sopravvivergli ed essere testimonianza delle proprie capacità e dei risultati raggiunti.
Eppure, spesso, il fautore principale, se non esclusivo, del disastro successivo al passaggio generazionale è proprio lo stesso imprenditore.
Le cause, normalmente, vanno ricercate nella sfera psicologica e caratteriale dell’imprenditore in cui si sommano valutazioni e considerazioni del tipo:
In realtà l’approccio corretto dovrebbe essere:
Il ruolo del commercialista.
A questo punto, nell’applicazione pratica di quanto detto sopra, si rivela prezioso il contributo dei professionisti dell’azienda e in particolare del Commercialista. Nell’ambito del percorso di crescita del giovane, infatti, occorrerà individuare i momenti e gli strumenti con cui attuare gradualmente il subentro.
Gli aspetti manageriali.
Se all’inizio il giovane potrà essere inquadrato come dipendente, successivamente, col crescere delle responsabilità e dei poteri delegatigli, potrà diventare “quadro” e, forse, dirigente.
Se la società risulta amministrata da un Consiglio d’Amministrazione occorrerà individuare il momento in cui egli possa entrare a farne parte. L’operazione potrebbe essere più delicata di quanto non sembri perché, ad esempio, la compagine sociale potrebbe non essere monolitica e il CDA potrebbe rappresentare un equilibrio tra i soci in cui l’innesto di un nuovo elemento potrebbe essere fonte di disequilibrio.
Molto spesso, inoltre, il CDA si riunisce solo formalmente, “sulla carta”, mentre le decisioni gestionali concrete vengono prese con modalità totalmente informali. In questo caso sarà utile convincere le parti ad effettuare le riunioni di Consiglio in modo effettivo e far sì che queste riunioni siano il reale luogo dove ci confronta e si decide. Così facendo il giovane si sentirà effettivamente coinvolto e le discussioni in Consiglio saranno occasioni di reale crescita.
Se invece la società è amministrata da un Amministratore Unico (ovviamente, il proprietario) sarà opportuno, a un certo punto, convincere quest’ultimo a istituire il Consiglio di Amministrazione per poi agire come appena visto sopra.
Gli aspetti patrimoniali.
E prima o poi occorrerà affrontare anche la questione della partecipazione al capitale della società da parte del giovane futuro “timoniere” che, specialmente in presenza di altri coeredi (fratelli e sorelle) che nella vita hanno fatto scelte diverse, considerato invece il proprio contributo all’evoluzione dell’azienda, vorrà garantirsi una priorità nel subentro nel patrimonio di questa.
Per questi aspetti rimandiamo a quanto detto nella pagina intitolata “Usufrutto e nuda proprietà” (in particolare al secondo esempio ivi presentato) ma soprattutto alla pagina intitolata “Il patto di famiglia” che, come detto in quella sede, rappresenta uno strumento formidabile, pur con qualche lacuna e qualche dubbio applicativo, per risolvere questo genere di problemi.
Se ci sono più figli che subentrano oppure nemmeno uno.
Ovviamente il caso in cui a subentrare in azienda siano più figli non cambia nulla dei ragionamenti e dell’impostazione sopra evidenziata. Ci sarà solamente una maggior complessità nella gestione dei percorsi e nell’attuazione dei passaggi manageriali e patrimoniali perché occorrerà tenere nel debito conto anche la necessità di equilibrio tra tutti i soggetti della nuova generazione subentrante.
Più delicata è la situazione opposta in cui la prima generazione non abbia eredi o, caso più comune, non abbia eredi desiderosi di entrare in azienda o, ancora, questi si appalesino come totalmente negati per un ruolo di responsabilità gestionale. L’imprenditore/fondatore, a questo punto, dovrebbe prendere atto della situazione e, in queste ultime ipotesi, non accanirsi nel cercare di trovare il proprio futuro sostituto in famiglia.
Tuttavia, sia per salvaguardare il frutto dei propri sacrifici e della propria capacità, sia per senso di responsabilità nei confronti di tutti gli stakeholders dell’azienda, in primis dipendenti e collaboratori, dovrebbe iniziare, sempre facendosi affiancare, la ricerca di un successore, magari proprio tra gli stessi dipendenti e collaboratori. Una volta individuato il soggetto più promettente si riparte dal precedente punto 3).
P.S. = Chiarimento finale. Per semplicità e velocità discorsiva abbiamo parlato di “padre”, ma è evidente che questo termine simboleggia qualunque appartenente alla prima generazione, (padre, madre, entrambi, nonni, zii, ecc…) e di “figlio” con questo intendendo qualunque appartenente alla seconda generazione subentrante (figlio, figlia, più figli, nipoti, soggetto esterno individuato come successore, ecc…).
La Legge 22.06.2016, n° 112 “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare” (ribattezzata giornalisticamente “Legge sul dopo di noi”) si inserisce in un percorso legislativo iniziato nel 1992 con la legge 104.
Come dice già il titolo della Legge e viene meglio declinato nel suo articolo 1, la finalità è <<favorire il benessere, la piena inclusione sociale e l’autonomia delle persone con disabilità>> che si trovino senza il sostegno dei genitori in quanto deceduti ovvero in quanto non in grado di fornire l’adeguato sostegno genitoriale.
A questi fini la Legge agevola:
La Legge prevede anche l’istituzione da parte dello Stato di un fondo, inizialmente di euro 90.000.000, da utilizzare con modalità stabilite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali sulla scorta di criteri stabiliti dalle Regioni.
Con il coinvolgimento delle Regioni e delle Province autonome e con la collaborazione dei Comuni, l’intento è:
Per quanto riguarda i privati, invece, viene previsto:
Il Governo dovrà provvedere a campagne di informazione sulla Legge e a relazionare alle Camere sullo stato di attuazione della Legge (tuttavia, a tutt’oggi, la pratica applicazione della Legge è ancora in alto mare).
La Legge, comunque, costituisce solo un primo passo perché per il raggiungimento delle finalità prefissate gli strumenti sembrano abbastanza modesti (un incremento della deducibilità dei premi sulle polizze da 530 a 750 euro non sembra, francamente, sconvolgente). La parte più interessante, tuttavia, è proprio quella dove si stimolano e si agevolano, tipicamente da parte dei genitori del soggetto disabile grave, operazioni di disposizione sul proprio patrimonio con utilizzo degli strumenti di cui diamo conto in altre pagine di questo sito.
Fa parte dell’istinto naturale dell’individuo cercare, in ogni momento, di porre in essere tutte le azioni possibili a garanzia del futuro proprio e dei propri cari.
Nell’ambito di questo istinto si pone la tendenza ad effettuare quanto possibile per salvaguardare il proprio patrimonio e, in particolare, per metterlo al riparo da possibili aggressioni da parte di creditori, esistenti o potenziali.
La tensione in questa direzione è sicuramente amplificata in chi svolge attività economiche. Imprenditori e professionisti sanno molto bene che, per quanto operino in modo prudente e nel rispetto delle leggi, non possono escludere di trovarsi, in futuro, soggetti ad aggressioni patrimoniali da parte di fornitori, di banche, del fisco, ecc…
E’ quindi naturale che, in presenza di beni patrimoniali (casa di abitazione, altri immobili, terreni, partecipazioni sociali, ecc…), cerchino strumenti in grado di metterli al riparo da possibili azioni ostili di terzi.
Purtroppo, tale naturale desiderio, cozza con l’interesse generale che è quello di tutelare eventuali creditori nel loro diritto di vedere soddisfatti i propri crediti.
Tra i due interessi/diritti (quello individuale di mettere al riparo il proprio patrimonio e quello collettivo di fornire tutele ai potenziali creditori) il Legislatore, abbastanza ovviamente, privilegia quest’ultimo essendo prioritario l’interesse collettivo su quello individuale.
La norma che traduce questo principio è l’art.2740, del Codice Civile che, al comma 1, dice che
<<Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri>>
Salvo mitigare l’onnicomprensività (…tutti…) di tale principio al comma 2 che, testualmente, recita:
<<Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge>>.
Di conseguenza, quando un soggetto (e il commercialista che lo assiste) intende valutare delle azioni a tutela del proprio patrimonio, deve avere ben chiara questa norma e la sua portata.
La norma stessa, infatti, ammette che possano esservi dei casi di limitazione della responsabilità ma statuisce che questi casi devono essere “stabiliti dalla legge”.
In queste deroghe al principio generale vengono indicati, spesso a sproposito, strumenti quali: fondo patrimoniale, trust, atti di destinazione e, da ultimo, la cosiddetta legge “sul dopo di noi”.
Questi strumenti, infatti, pongono in essere situazioni che sottraggono i beni di un soggetto o parte di essi, alle azioni dei creditori del soggetto stesso e, quindi, costituiscono quelle limitazioni della responsabilità che sono ammesse dalla legge.
Quello che spesso non è chiaro è che tali strumenti costituiscono deroghe ammesse al principio generale di responsabilità patrimoniale NON IN SE’, ma solamente quando utilizzati per garantire altri interessi che il legislatore ritiene meritevoli di tutela quali: garanzie economiche per le necessità di famiglia e in particolare di eventuali figli minori (fondo patrimoniale), garanzie per soggetti con gravi disabilità (trust e legge sul dopo di noi), ecc…
Sono le situazioni (ad essere) meritevoli di tutela che il Legislatore ammette come presupposto per derogare al principio generale di responsabilità patrimoniale, non lo strumento utilizzato. Il fondo patrimoniale, piuttosto che il trust o altro istituto giuridico, costituiscono semplicemente gli strumenti ammessi al fine di raggiungere quell’obiettivo che il Legislatore riconosce come tutelabile.
Di conseguenza, l’individuazione dello strumento migliore deve partire dal presupposto che esso resisterà alle potenziali aggressioni legali di chiunque ne abbia interesse, solamente se si potrà dimostrare che le finalità per cui è stato posto in essere rientrano tra quelle meritevoli di tutela previste dalla legge.
Le azioni di aggressione possibili sono diverse: si va dall’azione revocatoria (ordinaria o fallimentare), all’azione di simulazione ex art.1414 Codice Civile, all’azione di nullità per causa illecita ex art.1418 dello stesso Codice.
Tra le azioni poste in essere per proteggere il patrimonio rientrano anche quelle volte ad attuare il cosiddetto “passaggio generazionale” come la donazione o il patto di famiglia. Di questi concetti si parla specificamente in altre pagine di questa sezione del sito.
Il fondo patrimoniale consiste in un vincolo posto su un complesso di beni, nell’interesse della famiglia.
Costituzione.
La sua realizzazione avviene mediante la costituzione di un patrimonio separato di destinazione, sul quale i poteri dispositivi dei costituenti risultano limitati, così come limitate sono le eventuali azioni esecutive da parte dei creditori.
Il fondo può essere costituito in qualunque momento in uno dei seguenti modi:
Il fondo può essere costituito da beni immobili, da beni mobili registrati o da titoli di credito specificamente individuati.
I beni vincolati nel fondo e i loro frutti possono essere destinati esclusivamente al soddisfacimento dei bisogni della vita familiare.
Effetti tra i coniugi.
I beni vincolati nel fondo sono amministrati da entrambi i coniugi secondo le norme sulla comunione legale (art.180 c.c.) ovvero: in forma disgiunta per quanto riguarda gli atti di ordinaria amministrazione e in forma congiunta per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione.
Di conseguenza, in quanto atti di straordinaria amministrazione, i beni possono essere venduti, ipotecati, dati in pegno o comunque vincolati, solo col consenso di entrambi i coniugi.
Se poi vi sono dei figli minori, le suddette operazioni necessitano dell’autorizzazione del giudice.
In linea generale anche la proprietà dei beni costituiti nel fondo è di entrambi i coniugi, anche quando essi provengono da uno solo di essi. Tuttavia l’atto costitutivo può prevedere diversamente.
Effetti nei confronti dei terzi.
I creditori di uno o di entrambi i coniugi, non possono agire esecutivamente sui beni del fondo e sui relativi proventi, per debiti che essi avessero coscienza essere stati contratti per motivi diversi dalla necessità di soddisfare i bisogni della famiglia.
In sostanza un creditore può rivalersi sui beni del fondo o sui loro proventi solo:
Così, ad esempio, una banca non potrà rivalersi sui beni costituenti il fondo per un finanziamento effettuato a uno dei coniugi, imprenditore individuale, per l’acquisto di macchinari dell’azienda, in quanto non può ignorare che quel finanziamento non è servito al soddisfacimento dei bisogni familiari.
Sotto il profilo formale il fondo risulta opponibile ai terzi a due condizioni:
N.B. = se l’atto è solo trascritto nei registri immobiliari, ma non annotato nell’atto di matrimonio, esso non può essere opposto ai terzi.
Proprio in relazione alla sua opponibilità ai terzi creditori, nella pratica, il fondo patrimoniale viene spesso costituito per difendere i beni familiari da possibili azioni dei creditori per debiti contratti nello svolgimento dell’attività d’impresa o di lavoro autonomo da parte di uno dei coniugi.
Va evidenziato che, secondo l’amministrazione finanziaria, i debiti tributari non sono mai estranei ai bisogni della famiglia e quindi, sempre secondo l’amministrazione finanziaria, i beni e i proventi del fondo patrimoniale sono sempre aggredibili per motivi tributari. Va tuttavia, altrettanto evidenziato che la prevalente giurisprudenza di merito ritiene questa posizione dell’amministrazione finanziaria destituita di fondamento.
Ma, al di là della materia tributaria, a questo punto, come si contemperano le previsioni di cui all’articolo 2740 del codice civile in materia di “principio di responsabilità patrimoniale” (vedi altra pagina di questo sito) con quanto previsto in tema di fondo patrimoniale?
La soluzione va trovata nelle possibilità offerte ai creditori di opporsi alla costituzione del fondo patrimoniale quando questo appare volto a sottrarre alla loro azioni esecutive i beni su cui essi fondavano le proprie speranze di risarcimento.
In sostanza i creditori possono agire in giudizio con l’azione revocatoria ordinaria per chiedere al giudice di rendere inefficace il fondo nei loro confronti.
Sotto questo profilo è estremamente importante differenziare il caso in cui il debito era sorto prima della costituzione del fondo, nel qual caso è sufficiente che i creditori dimostrino che i coniugi costituenti erano consapevoli di arrecare pregiudizio ai loro interessi (cosa che risulterà sempre comprovata quando i beni rimasti estranei alla costituzione del fondo non sono capienti come garanzia del pagamento del debito), dal caso in cui il debito sorga dopo, nel quale il creditore procedente dovrà provare anche, prova molto più difficile da dare, che era intenzione dei costituenti nuocere al soddisfacimento delle ragioni di credito.
In sostanza la costituzione di un fondo patrimoniale in presenza di debiti importanti, comunque tali da essere garantiti solamente o in gran parte, dai beni costituiti nel fondo medesimo, è di fatto inutile o in ogni caso rischiosa, in quanto i creditori avranno buon gioco a dimostrare che il fondo fu costituito in loro danno.
Va tuttavia tenuto presente che l’azione revocatoria ordinaria si prescrive in cinque anni dal compimento dell’atto (ovvero dalla costituzione del fondo) e richiede che le prove come sopra indicate siano fornite da chi ha promosso l’azione.
Un caso particolare riguarda il fallimento di uno dei due coniugi (a seguito dell’entrata in vigore del Codice della Crisi, D.Lgs 14/2019, dal 15.07.2022, è più corretto parlare di tale coniuge non come “fallito”, bensì come “soggetto a liquidazione giudiziale”), quando il fondo fu costituito (anche) con i beni di quest’ultimo. In tal caso si ritiene esperibile l’azione revocatoria fallimentare, di cui all’articolo 163 del suddetto Decreto Legislativo, che sostanzialmente esonera il curatore fallimentare (meglio: “curatore della liquidazione giudiziale”) da ogni necessità di prova se il fondo patrimoniale è stato costituito nei due anni antecedenti alla data di dichiarazione del fallimento.
Cessazione del fondo.
La destinazione del fondo cessa in questi seguenti tre casi:
Gli effetti della cessazione sono però diversi nei due seguenti casi:
Conclusioni: il fondo patrimoniale è un ottimo strumento per proteggere il patrimonio dalle aggressioni dei terzi, purché esso sia costituito “in tempi non sospetti”.
In sostanza:
Iniziamo dicendo che, se costituire un fondo patrimoniale è un atto estremamente semplice sotto il profilo formale, la costituzione di un trust, invece, è un’operazione alquanto complessa.
Questo dipende dal fatto che il trust non è regolamentato nella normativa italiana (un disegno di legge per l’istituzione e disciplina in Italia del “contratto di fiducia” – trust in inglese significa fiducia anche se, in questo ambito, il termine sarebbe meglio tradotto con “affido” – giace in Parlamento dal 2015) essendo un istituto tipico dei paesi anglosassoni.
Il trust può essere costituito in Italia solamente a seguito della ratifica, in vigore dal 1992, della Convenzione dell’Aja del 01.07.1985.
Vi sono poi richiami al trust in diverse leggi speciali, come ad esempio quella sul “dopo di noi” (L.112/2016; vedi altra pagina di questo sito).
Siamo di fronte a trust italiani, quindi, quando le figure coinvolte e i beni in esso conferiti sono italiani (ma la normativa applicabile deve essere scelta tra quelle di ordinamenti stranieri che disciplinano il trust come istituto giuridico).
Le figure del trust sono tre o talvolta quattro, tenendo però presente che la flessibilità dello strumento consente (salvo limitazioni di cui parleremo) che la stessa persona possa assumere su di sé anche più figure e sono:
Secondo la tipologia, in dottrina, si distingue tra:
Costituzione del trust.
Sotto il profilo della costituzione abbiamo:
Nella costituzione di un trust, sotto il profilo del contenuto, il trust stesso deve contenere i seguenti elementi essenziali:
Sotto il profilo della forma, la costituzione di un trust deve essere comprovata da un atto scritto (talvolta in relazione alla natura dei beni trasferiti, occorre anche l’atto pubblico) e, soprattutto, deve essere costituito volontariamente. Inoltre, per poter essere fiscalmente riconosciuto, il trust deve essere irrevocabile ovvero non deve contenere clausole che consentano al disponente di revocarlo.
Per quanto riguarda la durata, in Italia il trust deve avere una durata limitata che non può superare i 100 anni.
Effetti a garanzia del patrimonio.
L’effetto fondamentale della costituzione di un trust è dato dalla segregazione patrimoniale del patrimonio conferito rispetto sia ai beni del disponente che a quelli del trustee. Di conseguenza:
L’amministrazione di tali beni è riservata al trustee, che ne risulta anche intestatario, sotto la sorveglianza del guardiano se nominato, potendo il disponente (semplicemente e se è previsto) dare delle direttive che tuttavia non sono vincolanti per il trustee.
La figura del trustee.
In ragione del suo potere/dovere di amministrazione dei beni, il trustee è il soggetto a cui carico vengono messi gli oneri maggiori.
Tra questi il principale riguarda la tenuta della contabilità, l’assolvimento di tutti gli obblighi fiscali e la predisposizione di un rendiconto periodico dello svolgimento della propria attività e dei risultati ottenuti.
Il trustee può essere sostituito o per sua scelta ovvero perché revocato dal disponente o dal guardiano o dal giudice in caso di gravi irregolarità da lui commesse.
Trattamento fiscale.
La fiscalità di un trust è piuttosto complessa e, su certi aspetti, controversa, sia relativamente all’imposizione diretta che all’imposizione indiretta.
Pertanto, in questa sede, ne omettiamo completamente la trattazione.
Cessazione del trust
Il trust cessa o per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti nell’atto costitutivo ovvero per il raggiungimento del termine finale.
In ogni caso, normalmente, i beni e i diritti del trust vengono assegnati ai beneficiari.
È tuttavia possibile stabilire che i beni possano ritornare al disponente ovvero che vadano a terzi che non risultavano tra i beneficiari durante il corso della vita del trust.
L’effetto di segregazione patrimoniale del patrimonio rispetto ai beni del disponente, così da sottrarlo ai creditori del disponente stesso, oltre che col trust, si può ottenere anche con un atto di destinazione di cui all’art.2645-ter (da taluno, proprio per questo, definito, anche se assai impropriamente, trust all’italiana).
Questa norma, inserita nel Codice Civile a fine 2005, stabilisce che:
e ancora:
La norma, pur disciplinando un tema di elevata rilevanza sociale, in virtù della sua giovane vita, ma anche di una tecnica legislativa assai carente e discutibile, presenta diverse problematicità e, di conseguenza, sino a oggi, risulta poco applicata.
Un primo aspetto di problematicità riguarda la natura stessa della norma.
Per taluni, in virtù di parte del suo contenuto e della collocazione nella parte del Codice Civile volta a disciplinare le forme di pubblicità (nel Libro VI “Della tutela dei diritti”, nel Titolo I “Della trascrizione”), si tratterebbe di una norma operante solamente nell’ambito della trascrizione di altri negozi giuridici. Secondo questa interpretazione la suddetta destinazione potrebbe operare solamente all’interno di atti traslativi della proprietà e/o di diritti reali e, di conseguenza, sarebbe inammissibile un atto col quale il vincolo di destinazione venisse statuito senza alcun altro “movimento” sugli immobili destinati.
Per altri, invece, la norma avrebbe carattere sostanziale arrivando a configurare un “negozio destinatorio puro”, autonomo rispetto agli altri negozi giuridici. Quindi, al contrario di quanto asserito al capoverso precedente, sarebbe perfettamente legittimo quell’atto in cui il conferente, con riferimento a taluni beni, senza disporre null’altro, stabilisse semplicemente che essi siano destinati (vincolati) alle finalità stabilite nell’atto stesso, con ciò segregandoli e sottraendoli ai propri creditori (ovviamente nulla vieta che questi, se ne vengono a conoscenza e se ne ricorrono i presupposti sostanziali e temporali, possano esperire l’azione revocatoria ordinaria o fallimentare).
Un secondo aspetto di problematicità riguarda la meritevolezza delle finalità richieste dalla norma ai fini della validità dell’atto.
Secondo taluni interpreti, stante anche l’espresso richiamo all’art.1322 del Codice Civile, la meritevolezza deve intendersi come semplice mancanza di illiceità. Di conseguenza sarebbe meritevole qualsiasi finalità che non risulti contrastante con norme imperative dell’ordinamento.
Secondo altri, che pongono l’accento sui richiami alle persone con disabilità e alle pubbliche amministrazioni, il requisito di meritevolezza sarebbe sussistente solamente quando la finalità dell’atto risponda a crismi di utilità sociale e/o di pubblica utilità. Sicchè, in assenza di tali finalità più “elevate”, l’atto sarebbe nullo e invalido a proteggere i beni oggetto dell’atto stesso.
In quest’ottica gli elementi di meritevolezza potrebbero essere individuati:
Va sottolineata, infine, con riferimento al criterio di meritevolezza, l’importanza della figura del Notaio, stante la sua responsabilità nel vaglio di liceità di tutti gli atti redatti a proprio ministero; responsabilità vieppiù rafforzata in caso di scritture redatte in forma di atto pubblico.
Ancora, non è chiaro se si sia di fronte a un atto:
L’orientamento prevalente sta nel considerare l’atto come unilaterale salvo che l’accettazione del beneficiario, che quindi può essere contestuale o successiva, serve per “stabilizzarne” gli effetti.
Prescindendo dalle problematicità sopra esposte (peraltro assai rilevanti e, nei fatti, fortemente limitanti dell’utilizzo concreto dello strumento giuridico) siamo di fronte a un istituto che realizza una importante limitazione del generale principio di responsabilità patrimoniale di cui all’art.2740 c.c. che viene subordinato alla meritevolezza degli interessi perseguiti con l’atto.
Con l’atto di destinazione, infatti, in deroga al principio generale e fatta salva la possibilità dei creditori per causa precedente all’atto stesso di esperire l’azione revocatoria, il “patrimonio destinato” viene sottratto ai creditori medesimi che non potranno rivalersi su di esso per le obbligazioni contratte dal conferente.
La prevalenza degli interessi meritevoli sul principio di responsabilità patrimoniale risulta confermata e rafforzata dalla disposizione dell’art.2645-ter che testualmente recita: <<per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso>>. Considerando che, salvo clausola contraria espressa, l’atto di destinazione è da considerare come un atto irrevocabile, la disposizione conferisce a chiunque ne abbia interesse (sia esso il beneficiario, ma anche un terzo interessato a salvaguardare i diritti del beneficiario) il potere, anche contro la volontà del conferente, di far rispettare il vincolo di destinazione.
Parliamo di assicurazioni in relazione alla capacità di questo strumento di tutelare il patrimonio di famiglia e, di conseguenza, ci limiteremo alle assicurazioni sulla vita, unico ramo che ci interessa ai nostri fini.
In generale, il contratto di assicurazione è disciplinato dal codice civile, dal codice delle assicurazioni, e da numerosi regolamenti, la maggior parte dei quali emessa dall’IVASS (Istituto per la Vigilanza sulle ASSicurazioni) o dal suo predecessore ISVAP (IStituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private e di interesse collettivo).
Le parti di un contratto di assicurazione sono costituite:
Ad esempio, Tizia (contraente) potrebbe contrarre un’assicurazione legata al rischio della morte del coniuge Caio (assicurato), che preveda, in caso si verifichi lo sventurato evento, il pagamento di una somma di denaro al figlio Sempronio (beneficiario).
Ma le tre figure possono identificarsi in due soli soggetti o, addirittura, anche in uno solo.
Ad esempio, Tizio (contraente) potrebbe contrarre un’assicurazione che preveda che quando egli stesso (assicurato) raggiunga una certa età, gli venga corrisposta (beneficiario) una rendita vitalizia mensile. Quindi Tizio raggruppa in sé tutte e tre le figure.
Caratteristiche e vantaggi delle polizze assicurative.
Parliamo di polizze assicurative in ambito di gestione del patrimonio in relazione alle seguenti, loro, caratteristiche:
Lasciando le altre tipologie di assicurazione, le assicurazioni sulla vita si distinguono in:
Polizze a tutela delle convivenze di fatto.
Dopo l’entrata in vigore della Legge 76/2016 (cosiddetta Legge sulle Unioni civili) che ha affiancato al tradizionale istituto del matrimonio anche:
le assicurazioni stanno introducendo delle polizze appositamente studiate per queste nuove realtà e, in particolare, per la convivenza di fatto.
Polizze linked.
Sono strumenti che, sotto la forma di polizze vita in caso vita, consentono di effettuare operazioni di investimento finanziario correlate (linked) a indici finanziari o a valori di quote di fondi o ad altri parametri di riferimento. Attenzione: in relazione alle loro caratteristiche ritenute solo formalmente previdenziali e, in realtà, speculative, la Cassazione ha disconosciuto, a queste polizze, a più riprese, le garanzie di impignorabilità e insequestrabilità.
Per concludere appare opportuno sottolineare che, in ossequio al principio di indipendenza previsto dalle norme deontologiche della professione nonché ai valori etici che impongono al commercialista di essere estraneo ad ogni attività commerciale potenzialmente in conflitto d’interessi col Cliente, lo Studio Gualerzi e Signorini non ha rapporti diretti di collaborazione con alcuna compagnia di assicurazione.
Tuttavia laddove si ravvisasse nello strumento assicurativo di qualunque natura un valido supporto alle esigenze del Cliente i professionisti dello studio saranno a disposizione per affiancare il Cliente stesso nella scelta dei migliori prodotti sul mercato.